Di giorno.
Di giorno (e a volte anche di sera), faccio la cameriera. I clienti sono i "cravattoni" della City, quelli con la giacca e le scarpe lucide che vanno sempre di fretta, che hanno sempre un cliente da incontrare o un treno da prendere. E poi ci sono le signorine, quelle con la camicetta bon-ton, i tacchi alti e le ballerine nella borsa.
Io invece indosso la maglietta rossa antiestetica che la compagnia ci impone, con la stupida spilla con il nominativo stampato, come a voler dire "ciao, siamo amici, dimmi tutto quello che ti serve, io sono qui per questo".
Di questo lavoro ho bisogno. Perchè al momento mi permette di pagarmi affitto, bollette, sopravvivenza e mezzi. Mi ha anche permesso di iscrivermi a un corso in una università londinese che potrebbe aprirmi le porte al mio lavoro "vero".
Mi ha dato l'opportunità di poter studiare per un esame senza dover chiedere soldi in prestito a nessuno.
Ma i clienti del ristorante tutto questo lo ignorano. Per loro sono solo una cameriera con cui sforzarsi di essere gentili nel migliore dei casi, o da utilizzare come capro espiatorio per dar sfogo alle proprie frustazioni, nel caso in cui il piatto non arrivi nei 15 minuti previsti dalla policy aziendale, se il riso non è abbastanza bollito o se invece lo è fin troppo, se il succo sa di sedano, se la salsa al curry non è abbastanza salata. (Che, detto tra noi, questi inglesi lamentoni che si improvvisano esperti di cucina fanno anche abbastanza ridere. Cresci a gelatina, fritto di qualsiasi cosa, pasta scotta con pollo e ketchup, e vieni a fare il pidocchioso sulla dose di brodo che dovrebbe esserci secondo te nella zuppa? No, non sei credibile).
Comunque in questo lavoro io non esisto. Non mi vedono. Sono solo quella da chiamare per avere velocemente il conto per poter tornare al volo al loro importantissimo business. E mi chiamano per nome, perchè è scritto sulla stupida spilla. Lasciano la mancia con svogliatezza, senza sapere che per me quei pochi spiccioli sono oro, perchè se dovessi vivere dello stipendio, beh, morirei di fame.
La sera.
La sera, a volte, arrivo a casa, mi sciolgo finalmente i capelli, indosso lo smalto, mi spoglio della stupida maglietta rossa e dell'orribile spilla. Mi vesto come e meglio delle signorine snob. Un tacco alto, una gonna bon-ton e una camicia in seta. Profumo, rossetto, borsetta.
Torno nella City. Sono sempre io, ma sono completamente diversa.
Entro in un famoso locale dove si riversano tutti, dopo una giornata dedicata alle loro importantissime attività, per i loro drinks del dopolavoro. Magia, questa volta mi vedono eccome.
Mi guardano bene, si avvicinano anche, dicono cose inutili, mi offrono da bere.
Ogni sera c'è una storia diversa da raccontare. "Cosa fai a Londra?" è una domanda che può avere le risposte più eclettiche, basta che non siano la verità.
Immagino già la faccia che farebbero "Lavoro a due passi da qui". "Ah sì, e in quale banca?". "No, non è una banca. Indosso una stupida maglietta, la coda di cavallo, un paio di all stars e cammino correndo 10km al giorno, tanto che la notte ho dei dolori talmente forti alle gambe che non mi fanno nemmeno dormire".
Sono stata educata a rispettare tutti i lavori, anche quelli più umili. Non mi vergogno del mio lavoro. Ma il mio lavoro non mi rispecchia. Non sono io. Non mi appartiene.
Così mi trovo incastrata in questa doppia dimensione. Una mezza scappata di casa di giorno, una sorta di meretrice la sera. Bugiarda sempre. Di giorno, perchè faccio finta di essere qualcosa che non sono. Di sera, perchè racconto un sacco di stronzate.
Vorrei fare qualcosa che mi compete. Vorrei poter essere me stessa.
Di giorno. E di sera.
Vorrei smettere di dire bugie. Ai colleghi, ai cravattoni, a me stessa.
Sono "maglietta rossa" di giorno, "miss ecopelliccia" di sera. Nel mezzo, ci sono io. Che ormai mi sento completamente persa, annegata nella bottiglia di Veuve Cliquot che il tizio di turno offre prima di chiudere la serata.
Non so più dove sono andata a finire.